martedì 3 aprile 2012

Come sistemare il problema Shockwave su Google Chrome

Da buon assiduo utilizzatore (direi piuttosto convinto anche) di Google Chrome non ho potuto fare a meno di accorgermi di quanto questo browser poco vada d'accordo con il plug-in Shockwave, o almeno così parrebbe.
E' diventata ormai prassi, quando qualche sito contiene video, che Chrome si pianti e mostri la schermata che segue.


Quando ciò accade, praticamente tutti i tab aperti vengono coinvolti nel crash, rendendo pressoché inevitabile il riavvio del programma.

Oggi cerchiamo di spiegare nel modo più semplice possibile, come poter ovviare a questo problema.

La causa è da ricercare nel plug-in Flash: Chrome infatti ha un suo plug-in interno, che si aggiorna ogni qual volta il sistema operativo venga aggiornato. Il problema nasce quando viene installato un secondo plug-in esterno, che concorre con il primo.
I due, sentendosi chiamati in causa nei siti con materiale Flash (e ce n'è..) a volte fanno un po' a botte entrando in contrasto.

La soluzione è piuttosto semplice.
Innanzitutto bisogna aprire un nuovo tab e nella barra degli indirizzi bisogna scrivere chrome://plugins/ e dare invio.
Dovreste trovarvi davanti una schermata del tipo che segue.


Si tratta della lista di tutti i plug-in gestiti da Chrome.
Nella lista, va individuata la voce con intestazione Flash e ci si clicca una volta sola su per selezionarla.
Come potete vedere, quel plug-in contiene due file.
In alto a destra, nell'angolo della finestra, c'è un pulsante + cliccateci su una sola volta e vi apparirà il dettaglio della voce selezionata.


Non dovete far altro che disabilitare il plug-in che alla voce Location finisce la sua stringa con "gcswf32.dll" e abilitare l'altra.

Una voce correttamente disabilitata ha il seguente aspetto...


Non c'è bisogno di salvare.
A questo punto basta chiudere Chrome, riavviarlo e andare alla test page di Adobe per verificare che il plug-in funzioni correttamente.


Se, a quel punto, doveste riscontrare problemi, andate alla pagina di download dell'ultima versione di Flash, cliccando semplicemente qui e scaricate il plug-in aggiornato.
Tra quelli che trovate nella lista dei componenti (raggiungibile sempre scrivendo chrome://plugins/ della barra indirizzi), l'unico a dover essere attivo è quello che alla voce Location finisce con NPSWF32.dll.
Per qualsiasi chiarimento o curiosità potete lasciare commenti.

In bocca al lupo.

BriXx

giovedì 29 marzo 2012

La vecchia guardia

La Vecchia Guardia è un corpo scelto di soldati che Napoleone istituì per la propria difesa. Non fu creata dal nulla, ma fu un riadattamento della Guardia Consolare post-rivoluzionaria, preesistente quindi all'Impero.
La Vecchia Guardia fu l'ultima a cedere in quel di Waterloo: fecero quadrato attorno all'Imperatore, gridandogli la loro fedeltà anche mentre cadevano come mosche sotto i colpi degli inglesi. Napoleone accettò di sacrificare molti di loro prima di ritenere accettabile l'idea di una resa.
Mi è tornata in mente la vicenda in questi giorni, leggendo un po' di giornali. Proprio ieri, quasi in contemporanea, due elementi della Vecchia Guardia berlusconiana si esibivano nel loro canto del cigno.
Emilio Fede, vessillo a drappo rosso, mai ammainato in 20 anni, dell'ex Presidente del Consiglio, ha ricevuto il benservito proprio da Mediaset e da quel suo mecenate così tanto adorato dall'ex-caporedattore del Tg più allineato d'Italia, dall'avergli dedicato il sacrificio della propria professione e della propria credibilità di uomo.
Circa mezzora dopo la pubblicazione di questa notizia, il Milan dei veterani, forse la squadra più vecchia d'Italia e della Champions, anch'essa indicatore sensibile dello stato di "salute" del Berlusconi politico ed imprenditore in tutti questi anni, ha spremuto le sue ultime forze e impiegato ciò che rimane della sua classe per fare muro contro le cannonate del Barcellona.
Impietoso, il Presidente a fine partita ha commentato con un laconico "è stato un Milan così così", dimostrandosi ancora poco incline alla resa.
Prima di loro, sull'altare della vittoria, si sono accomodati da vittime sacrificali altri generali e graduati vari quali Dell'Utri, Gelli, Liguori, Bongiorno, Maldini (Paolo), tutti personaggi che hanno contribuito a renderlo ciò che è stato e che sono stati progressivamente abbandonati alla loro sorte, allontanati dalla grande casa perché non più utili alla causa, se non addirittura deleteri.
Il movimento consumistico forse più incisivo d'Italia dopo 20 anni mostra cosa ne è dei burattini logori, a quale fine sono destinati.
Ci si augura che prima o poi anche la fabbrica di burattini chiuda e con essa questo ciclo di persone che ascendono alla ribalta, si consumano in poco tempo e vengono tristemente riposte in soffitta.

BriXx

venerdì 27 gennaio 2012

Nuove emoticons Facebook

Quello delle emoticon di Facebook è forse uno degli argomenti che più spesso tratto, devo dire però, senza particolare interesse da parte mia.
Il fatto è che nonostante le tonnellate di materiale a supporto degli utenti del mega-social-network, la maggior parte degli utenti non conosce le combinazioni per le "faccine da chat", salvo poi però chiedere insistentemente a chi le conosce di spiegargli come si facciano.
Sono iscritto a Facebook dal 2007, quindi sono praticamente 5 anni che sto lì a spiegare sempre le stesse cose.
Ora, ogni volta che capita, trovo strano, o quantomeno inusuale, che non abbiano aggiunto qualcosina negli anni. Non dico quelle animate (è già un miracolo che la loro chat funzioni così), ma quantomeno qualche altra espressione, o magari qualche emoticon segreta ogni tanto che poi pian piano venga tramandata dai facebook-addicted lungo tutta la catena che finisce con l'anello debole dei tecnolesi.
Butto un'occhio alla lista di quelle "classiche": semplici, fatte abbastanza bene, sufficientemente varie da coprire le emozioni più comuni. Persino un pinguino e uno squalo al posto dei soliti cane e gatto rendono più gustosa la collezione. Si inciampa quindi sul più bello sul :putnam: (per la quale ci vuole un minimo di ricerca in rete che garantisca la piena comprensione) e ci si trova infine faccia a faccia con l'incomprensibile :42:, ritenuta forse cifra statisticamente più adeguata a qualsiasi domanda preveda come risposta un numero (non lo sapremo mai e non intendiamo pagare qualcuno perché ce lo spieghi, credo).
Ad ogni modo, perché non aggiungere qualcosina? Perché sottostimare così tanto la chat, quando è proprio lì che i legami tra gli utenti si stringono maggiormente?
E' certamente la parte di Facebook meno sotto controllo da parte di Zuckerberg & Soci, un orpello se la si mette in relazione con la fame di informazioni che hanno. Nessun "I Like", nessuna pubblicazione massiva di contenuti che scateni la reazione degli account nelle liste amici, nulla di tutto questo. Solo un semplice "io e tu" in un angolo, con luci basse, del sito.
Scrivo, rifletto e cambia in corsa il fine di questo post: il giorno che cambieranno le emoticon della chat, vorrà probabilmente dire che avranno acceso le luci anche lì. Con buona pace delle 4 chiacchiere di cui sopra.
Speriamo di no...

BriXx

lunedì 2 gennaio 2012

Nikon - Canon: ultimo round

Accade così, un giorno la tua compatta, o la tua bridge, comincia a pugnalarti alle spalle. Iso insufficienti, scarsa risoluzione, l'impossibilità acclarata di metter mano alle impostazioni pre-scatto: tramano alle tue spalle.
A quel punto si materializza nella mente del fotografo frustrato un catalogo di reflex che con fare suadente ti promettono libertà di espressione che di certo le loro cuginette più piccole non possono neanche immaginare.
Il bello viene proprio in quel momento, perché le reflex costano e si vorrebbe poter avere la massima resa dall'investimento importante che viene fatto.
Ci si comincia ad informare, cercando su internet, e i primi due nomi, totalmente egemoni nella rete e sul mercato, sono ovviamente quelli di papà Nikon e mamma Canon. Li distinguo così perché la disputa che da anni prosegue indisturbata nasce dal quesito a proposito dell'eventuale obbiettiva superiorità dell'una sull'altra; quesito che, allo stato attuale dei fatti, non sembra molto diverso dalla domanda che molti genitori fanno al proprio figlio da piccolo: "vuoi più bene al papà o alla mamma?".
Va da sé che papà e mamma sono cose differenti e ci si affida all'uno o all'altra a seconda delle circostanze, delle esigenze. Entrambi assolvono al ruolo di genitore, ma è innegabile che lo facciano in modo naturalmente diverso.
Trovo divertente questo parallelismo, anche se prima di stamattina avevo la netta sensazione che tra i due marchi avrei scelto senza dubbio quello paterno. Perché per puro caso la mia prima compatta (mi fu regalata) fu una Nikon e la fidelizzazione al marchio è passata per la sua buona resa, per l'abitudine al menu di gestione e alla disposizione dei comandi. Il passaggio a una bridge Nikon fu praticamente esente da traumi: non ci volle un periodo di adattamento ed era come se la mia compatta, da un momento all'altro fosse diventata più potente e più adatta a me.
Ora che anche la bridge (una L100 per la cronaca) mi sta stretta, ho messo da parte la cifra necessaria per passare ad una reflex entry level, puntando la D3100 Nikon senza neanche pensare che potesse esserci alternativa valida.
Per scrupolo però, perché solo i fessi non cambiano idea, vado a farmi un giro nei forum a tema, curioso di capire se la mia scelta fosse largamente condivisa da chi  il passo l'aveva già fatto. Niente di tutto questo.
Ho scoperto che il mondo dei fotografi si divide in 4 categorie: Nikonisti, Canonisti, Indipendentisti (come quelli delle presidenziali americane che votano per un terzo candidato destinato  alla sconfitta) e i Romantici.
I primi due ovviamente sono fermamente convinti che il marchio al quale sono fidelizzati vanti oggettivamente la supremazia tecnologica e tentano di supportare le loro tesi snocciolando numeri e citazioni da wikipedia su chi ha fatto prima, più e meglio cosa. Questi due non ti aiutano per nulla, tranne forse per il fatto che capisci che è meglio non far parte di nessuna delle due schiere.
I terzi ovviamente esagerano in senso opposto, affermando che ci sono marche decisamente migliori a minor prezzo, negando una superiorità tecnologica che i due "genitori" mi sembra abbiano effettivamente consolidato. Apprezzabile comunque che ci sia qualcuno che ti indichi una terza via, con alternative da non scartare necessariamente.
I Romantici invece, affermano di poter scattare anche con un tubo di cartone dello scottex al posto dell'obbiettivo, perché ciò che conta di più è l'uomo dietro il mezzo. Visione antropocentrica classica, che fa abbastanza danni nel mondo, ma che conserva un senso solo se pensiamo allo scatto come ad un atto intimo di creazione (cosa che effettivamente è).
Sono arrivato alla conclusione che ogni apparecchio, a seconda di ergonomicità e resa finale, può essere più o meno adatto a chiunque: un pò di tentativi di impugnatura, mira e scatto sono quindi fondamentali prima di passare alla cassa. In questo ha certamente un ruolo un'eventuale precedente esperienza con un sistema operativo piuttosto che un altro (ogni casa madre ne ha uno), a meno che non si accetti di pagare dazio perdendo un po' di tempo ad abituarsi alla nuova gestione del menu.
E' fondamentale sapere cosa si vuol fare del prodotto finito: una stampa di un'immagine su un cartellone di 24 metri quadri necessita di mezzi migliori rispetto a quelli utili ad un fotografo da Flickr.
Ma, soprattutto, se si è vittime di questa infinita diatriba tra marche, va assolutamente dissociato il discorso meramente tecnico, nel quale numeri e nozioni sono davvero importanti perché sono quantificabili, qualificabili e comparabili, dal discorso emotivo, che per sua natura è personale, intimo e certamente non estendibile.
Dopo aver letto tanti pareri quindi ho le idee molto più chiare su cosa comprare; e non perché un parere in particolare mi abbia colpito, ma solo perché nessuna opinione è risultata essere definitiva ed inconfutabile.
Spero che questa riflessione vi serva quanto è servita a me.

BriXx

P.S. (Un ringraziamento va certamente a Marco Cupri e al suo post sul tema. Ve lo consiglio sinceramente.)

martedì 27 dicembre 2011

Geppi Cucciari (HOT?)

Il dietro le quinte di internet punta a diventare sempre più una traccia attendibile di ciò che la gente fa e pensa. E' un pò da vouyeristi andarsi a spulciare certi dati e certe statistiche che si ricavano semplicemente gestendo (ad esempio) dei cms - content manager system - come Joomla o Wordpress, ma se lo si deve fare per lavoro la colpa è certamente meno grave.
Una mia amica fa esattamente questo: gestisce alcuni blog e, per ottimizzare il flusso di visite, cerca su internet gli argomenti più ricercati dagli utenti.
Viene fuori che sotto Natale, subito dopo le ricerche tipiche del periodo (acquisti, fai da te per decorazioni, shopping on-line) le chiavi di ricerca più in voga avevano tutte a che fare con il sesso (e fin qui) associato a Geppi Cucciari.
Ora, per chi non lo sapesse, la Cucciari è una cabarettista sarda, anche piuttosto divertente, che ha bazzicato Zelig per qualche anno. Un pò corpulenta, il tipico "tipo" che può piacere e non piacere. A quanto pare, i suoi seni, i suoi piedi e la speranza di trovare alcune sue foto nuda muovono le ricerche di numerosi nostri compatrioti.
Ogni giorno io incontro ed incrocio decine di donne come lei, depresse per il fatto di non piacere, in perenne guerra con la bilancia e mi chiedo cosa ci sia di sbagliato in tutto ciò.
E' la tv che rende irrimediabilmente fulgidi? E' la sicurezza in sé stesse che attrae gli uomini? E' la definitiva vittoria delle taglie forti contro le amazzoni del fitness e della chirurgia estetica?
Non so dare una risposta.
Sono abbastanza convinto che nel nostro patrimonio genetico sia scritto da qualche parte che una donna corpulenta, ma non troppo, sia attraente e che solo un bombardamento culturale a tappeto ci impedisca di seguire i nostri istinti. Quanto è più bello, inoltre, avere a fianco a sé una donna che riesca a condividere i piaceri di una buona cucina, piuttosto che stare con la paladina della Weight Watchers?
In più, lo sottolineo perché è importante, avere al proprio fianco una persona capace di farti ridere, certamente le garantisce dei punti che una scopa da giardino non potrebbe.
Insomma...parto basito, ma comincio col farmene una ragione.
Cloniamo Geppi.


BriXx

giovedì 10 novembre 2011

Concordo (II)

Qualche giorno fa un mio amico, Alessandro della Corte, pubblicava sul sito di Claudio Giunta alcune interessanti considerazioni su Steve Jobs e in particolare sul discorso pronunciato a Stanford, ai laureandi, e ai valori che egli incarna ormai da anni.
Di seguito, tra virgolette, l'intero articolo.

"Non restate folli

  di Alessandro Della Corte


Sono i vincenti, si sa, che scrivono la storia. Non solo i vincenti sul campo di battaglia: anche nel mondo della ricerca, nell’arte e nel mercato sono quasi sempre i vincenti a raccontare come le cose sono andate e quindi, dal loro punto di vista, come dovrebbero andare.

Il 12 giugno 2005 un vincente per antonomasia, Steve Jobs, pronunciò di fronte ai laureandi di Stanford un discorso che, già subito ampiamente pubblicizzato, dopo la sua morte è stato elevato quasi a testo sacro da giornalisti e specialisti in comunicazione di tutto il mondo. Il tono del discorso era quello di un’esortazione accorata ai giovani studenti: cercate di seguire le vostre passioni e le vostre idee, non lasciatevi ingabbiare da percorsi di vita preconfezionati e, soprattutto, credete in voi stessi. Come tutti i testi sacri, il discorso (che conteneva alcuni spunti molto più originali e interessanti dei precedenti, come la difesa di una cultura ricca e varia più che immediatamente spendibile a scopo produttivo) è stato in realtà letto poco dalla maggioranza dei suoi devoti, che si sono per lo più accontentati della banalizzazione giornalistica e, soprattutto,  del motto che Jobs (riprendendolo da quell’accattivante contenitore che era il Whole Earth Catalog) scelse come conclusione: restate affamati, restate folli.


Ci sono almeno tre motivi per i quali non dovremmo accettare ingenuamente quel discorso, e in particolare quest’ultimo motto, come guida ideale di vita per tutti i giovani.

Il primo è di natura, per così dire, geografica. Jobs si rivolge a studenti americani, e tutto il suo ragionamento è riferito agli Stati Uniti. Insiste, ad esempio, sul fatto che l’università costa moltissimo e che spesso non fornisce ciò di cui lo studente-cliente ha davvero bisogno. Ma in Italia l’università è pubblica (e costa molto meno) e lo studente non è un cliente. Lo scopo primario dell’università italiana dovrebbe essere quello di formare competenze utili alla collettività, non di aiutare ciascuno studente nella sua personale scalata sociale. Jobs parla a giovani che hanno il problema di farsi spazio in una società (quella americana) in cui non c’è uno stato sociale di stampo europeo, ma ci sono i corsi privati di auto-motivazione su come imparare a sgomitare nella competizione con il prossimo. Le indicazioni che fornisce si adattano perfettamente a quel contesto, ma pensare di distribuirle come perle di saggezza in Italia è molto superficiale. L’idea di Jobs che ognuno debba trovare le risorse per il proprio successo solo dentro di sé appare per lo meno bizzarra in un paese in cui perfino il numero chiuso in facoltà molto dispendiose per lo Stato (come Medicina) fa ancora discutere animatamente. Non è che la fiducia in sé stessi, da noi, non sia importante (anzi è così banalmente importante che è francamente noioso ricordarlo a ogni piè sospinto); è solo che un approccio del genere, così strettamente individualistico, dovrebbe apparire un po’ primitivo a uno studente europeo consapevole e intelligente, appartenente a una tradizione culturale che riflette da millenni sul delicato rapporto tra libertà e bene comune e che non considera quest’ultimo come lo stato di equilibrio dinamico automaticamente risultante dalla corretta competizione tra gli individui.

Il secondo motivo per cui mi sembra fuori luogo l’adorazione universale che il discorso di Jobs ha suscitato è di natura storica. Anche se risale solo a pochi anni fa, il messaggio di Jobs si riferiva a un mondo diverso da quello di oggi, se non oggettivamente almeno soggettivamente, nella percezione della maggioranza delle persone. Nel mondo pre-crisi economica del 2005 il problema principale della politica era considerato dai più quello della giusta ripartizione della ricchezza e delle risorse; di conseguenza, il problema principale dei singoli era quello di lottare per accaparrarsi la fetta più grande possibile di una torta già pronta. Il prototipo dell’uomo di successo, negli Stati Uniti e quindi nel mondo, era per molti ancora quello del businessman vincente nel marketing, e su questo prototipo si è in buona parte fondato il mito (cui anche il discorso di Jobs soggiace) del giovane che costruisce un impero dal nulla affidandosi solo alle sue idee e alla sua fiducia in sé stesso. La crisi economica iniziata negli USA alla fine del 2006 e quella europea attualmente in corso hanno incrementato notevolmente il numero di coloro che, sfiduciati verso il mondo della speculazione finanziaria, ritengono ormai che il problema sia di natura diversa: che prima di distribuire le fette della torta devono essere procurati gli ingredienti e formati i cuochi, obiettivi di lungo periodo che fanno parte dei compiti degli Stati e non possono essere affrontati da una somma di individualità, per quanto volenterose e determinate. Lo stesso repertorio di metafore di Jobs, estremamente efficace nel suo contesto, sembra fuori luogo qui e ora: rivolgendosi ai giovani europei (poniamo greci, figli di genitori che, quando va bene, stanno vedendo dimezzarsi i loro stipendi) non è un po’ grottesco dire restate affamati?

Infine, un terzo argomento di natura probabilistica. Il discorso di Jobs è una storia raccontata dal vincente, un’osservazione semplice che non andrebbe mai dimenticata. Nel mondo non possono esserci, evidentemente, centinaia di milioni di storie che finiscono come la sua. È certamente di grandissimo interesse ascoltare le argute riflessioni di un vincente, ma prendere il suo punto di vista come quello giusto per definizione è molto pericoloso, più o meno come chiedere a un giocatore che ha fatto saltare il banco alla roulette quali sono state le sue puntate per poi ripeterle con tutti i propri risparmi. Il motivo per cui queste due scelte mi sembrano ugualmente pericolose è lo stesso: il caso. Ogni vincitore è stato baciato dalla fortuna; un vincitore colossale come Jobs, in particolare, oltre a essere naturalmente una persona eccezionale da molti punti di vista, ha necessariamente avuto dalla sorte un grandissimo numero di favori (come peraltro egli stesso ammetteva). E proprio come il giocatore che ha appena sbancato il casinò, che suggerirebbe a chiunque di puntare forte, egli ritiene di dover dare, in assoluta buona fede, il consiglio che nel suo caso è stato vittorioso: credete in voi stessi e restate folli.

You have to trust in something — your gut, destiny, life, karma, whatever. This approach has never let me down, and it has made all the difference in my life.

Oggi si vuole indirizzare lo stay foolish a tutti i giovani. Ma è davvero nell’interesse della collettività che tutti i giovani restino folli e cerchino di sfondare con una loro idea personale? Non sarebbe forse più opportuno che il messaggio proveniente dall’élite culturale fosse quello di restare sobri e cercare un ruolo costruttivo nella società attraverso le risorse fornite dalle strutture educative e produttive del proprio paese (magari cercando di lottare per migliorarle), attraverso l’impegno quotidiano nello studio e nel lavoro?

Un centimilionesimo dei giovani che restano folli e credono in sé stessi diventeranno i nuovi Steve Jobs. E gli altri? Penso di poter anticipare la risposta che verrebbe loro data dagli attuali devoti del Jobs-pensiero, una risposta tipica degli interpreti ufficiali dei testi sacri: se non si sono salvati, vuol dire che non credevano abbastanza."

Concordo

Josefa Idem, campionessa italiana di canoa, ha scritto un interessante articolo sulla Gazzetta a proposito della biografia di Zlatan Ibrahimovic, attaccante del Milan.
Poche righe che sottolineano quanto l'informazione di oggi faccia un pericoloso doppio gioco, deresponsabilizzandosi completamente.
Di seguito, tra virgolette, l'articolo.

"A costo di passare per moralista noiosa, trovo sbagliata la chiave di lettura che in questi giorni si dà del libro in uscita di Ibrahimovic. Voglio chiarire subito: del campione granitico che Ibra è, della grinta e della determinazione che lo contraddistinguono, ho grande rispetto.

Tuttavia, mettendo troppa enfasi, com'è successo con le recenti anticipazioni, sulle sue bravate "facevo anche 325 chilometri all'ora" e sulle sue bevute, passa un messaggio sbagliato verso i giovani. E questo in un momento in cui c'è piuttosto bisogno di messaggi e modelli positivi e costruttivi.

Quante volte leggiamo nei giornali di ragazzi in coma etilico, di incidenti causati da giovani per eccesso di velocità e consumo di alcool! Quante volte condanniamo questo stile del sabato sera, quante volte ci chiediamo impotenti come poter porre rimedio, per poi leggere in caratteri cubitali che proprio questo atteggiamento passa per "ganzo" perché assunto da un campione sportivo come Ibra. Forse è soltanto una mia impressione, ma sembra quasi che lui abbia vinto, nello sport e nella vita, grazie e questa condotta. Invece è esattamente il contrario: ce l'ha fatta nonostante quei comportamenti.

E purtroppo non finisce qui perché poi ci sono anche le polemiche su Guardiola, frutto e promotore allo stesso momento del sistema Barcellona che è il Modello per i valori che lo sport può esprimere perché garante di grandi prestazioni in una cornice esemplare di correttezza e fair play. Insomma, dove andiamo a finire se ci deve ispirare chi ridicolizza una persona come Guardiola che non è mai sopra le righe, né con le parole né coi comportamenti?

Credo che vada fatta chiarezza. Condannando i ragazzi spacconi e non prendendo le distanze dalle rivelazioni di Ibrahimovic forniamo un alibi a comportamenti scorretti e troppe volte pericolosi.
Se poi ridicolizziamo persino gli esempi positivi alimentiamo un mondo dai valori capovolti. E visti i tempi che corrono non è proprio ciò che ci vuole."

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