martedì 27 dicembre 2011

Geppi Cucciari (HOT?)

Il dietro le quinte di internet punta a diventare sempre più una traccia attendibile di ciò che la gente fa e pensa. E' un pò da vouyeristi andarsi a spulciare certi dati e certe statistiche che si ricavano semplicemente gestendo (ad esempio) dei cms - content manager system - come Joomla o Wordpress, ma se lo si deve fare per lavoro la colpa è certamente meno grave.
Una mia amica fa esattamente questo: gestisce alcuni blog e, per ottimizzare il flusso di visite, cerca su internet gli argomenti più ricercati dagli utenti.
Viene fuori che sotto Natale, subito dopo le ricerche tipiche del periodo (acquisti, fai da te per decorazioni, shopping on-line) le chiavi di ricerca più in voga avevano tutte a che fare con il sesso (e fin qui) associato a Geppi Cucciari.
Ora, per chi non lo sapesse, la Cucciari è una cabarettista sarda, anche piuttosto divertente, che ha bazzicato Zelig per qualche anno. Un pò corpulenta, il tipico "tipo" che può piacere e non piacere. A quanto pare, i suoi seni, i suoi piedi e la speranza di trovare alcune sue foto nuda muovono le ricerche di numerosi nostri compatrioti.
Ogni giorno io incontro ed incrocio decine di donne come lei, depresse per il fatto di non piacere, in perenne guerra con la bilancia e mi chiedo cosa ci sia di sbagliato in tutto ciò.
E' la tv che rende irrimediabilmente fulgidi? E' la sicurezza in sé stesse che attrae gli uomini? E' la definitiva vittoria delle taglie forti contro le amazzoni del fitness e della chirurgia estetica?
Non so dare una risposta.
Sono abbastanza convinto che nel nostro patrimonio genetico sia scritto da qualche parte che una donna corpulenta, ma non troppo, sia attraente e che solo un bombardamento culturale a tappeto ci impedisca di seguire i nostri istinti. Quanto è più bello, inoltre, avere a fianco a sé una donna che riesca a condividere i piaceri di una buona cucina, piuttosto che stare con la paladina della Weight Watchers?
In più, lo sottolineo perché è importante, avere al proprio fianco una persona capace di farti ridere, certamente le garantisce dei punti che una scopa da giardino non potrebbe.
Insomma...parto basito, ma comincio col farmene una ragione.
Cloniamo Geppi.


BriXx

giovedì 10 novembre 2011

Concordo (II)

Qualche giorno fa un mio amico, Alessandro della Corte, pubblicava sul sito di Claudio Giunta alcune interessanti considerazioni su Steve Jobs e in particolare sul discorso pronunciato a Stanford, ai laureandi, e ai valori che egli incarna ormai da anni.
Di seguito, tra virgolette, l'intero articolo.

"Non restate folli

  di Alessandro Della Corte


Sono i vincenti, si sa, che scrivono la storia. Non solo i vincenti sul campo di battaglia: anche nel mondo della ricerca, nell’arte e nel mercato sono quasi sempre i vincenti a raccontare come le cose sono andate e quindi, dal loro punto di vista, come dovrebbero andare.

Il 12 giugno 2005 un vincente per antonomasia, Steve Jobs, pronunciò di fronte ai laureandi di Stanford un discorso che, già subito ampiamente pubblicizzato, dopo la sua morte è stato elevato quasi a testo sacro da giornalisti e specialisti in comunicazione di tutto il mondo. Il tono del discorso era quello di un’esortazione accorata ai giovani studenti: cercate di seguire le vostre passioni e le vostre idee, non lasciatevi ingabbiare da percorsi di vita preconfezionati e, soprattutto, credete in voi stessi. Come tutti i testi sacri, il discorso (che conteneva alcuni spunti molto più originali e interessanti dei precedenti, come la difesa di una cultura ricca e varia più che immediatamente spendibile a scopo produttivo) è stato in realtà letto poco dalla maggioranza dei suoi devoti, che si sono per lo più accontentati della banalizzazione giornalistica e, soprattutto,  del motto che Jobs (riprendendolo da quell’accattivante contenitore che era il Whole Earth Catalog) scelse come conclusione: restate affamati, restate folli.


Ci sono almeno tre motivi per i quali non dovremmo accettare ingenuamente quel discorso, e in particolare quest’ultimo motto, come guida ideale di vita per tutti i giovani.

Il primo è di natura, per così dire, geografica. Jobs si rivolge a studenti americani, e tutto il suo ragionamento è riferito agli Stati Uniti. Insiste, ad esempio, sul fatto che l’università costa moltissimo e che spesso non fornisce ciò di cui lo studente-cliente ha davvero bisogno. Ma in Italia l’università è pubblica (e costa molto meno) e lo studente non è un cliente. Lo scopo primario dell’università italiana dovrebbe essere quello di formare competenze utili alla collettività, non di aiutare ciascuno studente nella sua personale scalata sociale. Jobs parla a giovani che hanno il problema di farsi spazio in una società (quella americana) in cui non c’è uno stato sociale di stampo europeo, ma ci sono i corsi privati di auto-motivazione su come imparare a sgomitare nella competizione con il prossimo. Le indicazioni che fornisce si adattano perfettamente a quel contesto, ma pensare di distribuirle come perle di saggezza in Italia è molto superficiale. L’idea di Jobs che ognuno debba trovare le risorse per il proprio successo solo dentro di sé appare per lo meno bizzarra in un paese in cui perfino il numero chiuso in facoltà molto dispendiose per lo Stato (come Medicina) fa ancora discutere animatamente. Non è che la fiducia in sé stessi, da noi, non sia importante (anzi è così banalmente importante che è francamente noioso ricordarlo a ogni piè sospinto); è solo che un approccio del genere, così strettamente individualistico, dovrebbe apparire un po’ primitivo a uno studente europeo consapevole e intelligente, appartenente a una tradizione culturale che riflette da millenni sul delicato rapporto tra libertà e bene comune e che non considera quest’ultimo come lo stato di equilibrio dinamico automaticamente risultante dalla corretta competizione tra gli individui.

Il secondo motivo per cui mi sembra fuori luogo l’adorazione universale che il discorso di Jobs ha suscitato è di natura storica. Anche se risale solo a pochi anni fa, il messaggio di Jobs si riferiva a un mondo diverso da quello di oggi, se non oggettivamente almeno soggettivamente, nella percezione della maggioranza delle persone. Nel mondo pre-crisi economica del 2005 il problema principale della politica era considerato dai più quello della giusta ripartizione della ricchezza e delle risorse; di conseguenza, il problema principale dei singoli era quello di lottare per accaparrarsi la fetta più grande possibile di una torta già pronta. Il prototipo dell’uomo di successo, negli Stati Uniti e quindi nel mondo, era per molti ancora quello del businessman vincente nel marketing, e su questo prototipo si è in buona parte fondato il mito (cui anche il discorso di Jobs soggiace) del giovane che costruisce un impero dal nulla affidandosi solo alle sue idee e alla sua fiducia in sé stesso. La crisi economica iniziata negli USA alla fine del 2006 e quella europea attualmente in corso hanno incrementato notevolmente il numero di coloro che, sfiduciati verso il mondo della speculazione finanziaria, ritengono ormai che il problema sia di natura diversa: che prima di distribuire le fette della torta devono essere procurati gli ingredienti e formati i cuochi, obiettivi di lungo periodo che fanno parte dei compiti degli Stati e non possono essere affrontati da una somma di individualità, per quanto volenterose e determinate. Lo stesso repertorio di metafore di Jobs, estremamente efficace nel suo contesto, sembra fuori luogo qui e ora: rivolgendosi ai giovani europei (poniamo greci, figli di genitori che, quando va bene, stanno vedendo dimezzarsi i loro stipendi) non è un po’ grottesco dire restate affamati?

Infine, un terzo argomento di natura probabilistica. Il discorso di Jobs è una storia raccontata dal vincente, un’osservazione semplice che non andrebbe mai dimenticata. Nel mondo non possono esserci, evidentemente, centinaia di milioni di storie che finiscono come la sua. È certamente di grandissimo interesse ascoltare le argute riflessioni di un vincente, ma prendere il suo punto di vista come quello giusto per definizione è molto pericoloso, più o meno come chiedere a un giocatore che ha fatto saltare il banco alla roulette quali sono state le sue puntate per poi ripeterle con tutti i propri risparmi. Il motivo per cui queste due scelte mi sembrano ugualmente pericolose è lo stesso: il caso. Ogni vincitore è stato baciato dalla fortuna; un vincitore colossale come Jobs, in particolare, oltre a essere naturalmente una persona eccezionale da molti punti di vista, ha necessariamente avuto dalla sorte un grandissimo numero di favori (come peraltro egli stesso ammetteva). E proprio come il giocatore che ha appena sbancato il casinò, che suggerirebbe a chiunque di puntare forte, egli ritiene di dover dare, in assoluta buona fede, il consiglio che nel suo caso è stato vittorioso: credete in voi stessi e restate folli.

You have to trust in something — your gut, destiny, life, karma, whatever. This approach has never let me down, and it has made all the difference in my life.

Oggi si vuole indirizzare lo stay foolish a tutti i giovani. Ma è davvero nell’interesse della collettività che tutti i giovani restino folli e cerchino di sfondare con una loro idea personale? Non sarebbe forse più opportuno che il messaggio proveniente dall’élite culturale fosse quello di restare sobri e cercare un ruolo costruttivo nella società attraverso le risorse fornite dalle strutture educative e produttive del proprio paese (magari cercando di lottare per migliorarle), attraverso l’impegno quotidiano nello studio e nel lavoro?

Un centimilionesimo dei giovani che restano folli e credono in sé stessi diventeranno i nuovi Steve Jobs. E gli altri? Penso di poter anticipare la risposta che verrebbe loro data dagli attuali devoti del Jobs-pensiero, una risposta tipica degli interpreti ufficiali dei testi sacri: se non si sono salvati, vuol dire che non credevano abbastanza."

Concordo

Josefa Idem, campionessa italiana di canoa, ha scritto un interessante articolo sulla Gazzetta a proposito della biografia di Zlatan Ibrahimovic, attaccante del Milan.
Poche righe che sottolineano quanto l'informazione di oggi faccia un pericoloso doppio gioco, deresponsabilizzandosi completamente.
Di seguito, tra virgolette, l'articolo.

"A costo di passare per moralista noiosa, trovo sbagliata la chiave di lettura che in questi giorni si dà del libro in uscita di Ibrahimovic. Voglio chiarire subito: del campione granitico che Ibra è, della grinta e della determinazione che lo contraddistinguono, ho grande rispetto.

Tuttavia, mettendo troppa enfasi, com'è successo con le recenti anticipazioni, sulle sue bravate "facevo anche 325 chilometri all'ora" e sulle sue bevute, passa un messaggio sbagliato verso i giovani. E questo in un momento in cui c'è piuttosto bisogno di messaggi e modelli positivi e costruttivi.

Quante volte leggiamo nei giornali di ragazzi in coma etilico, di incidenti causati da giovani per eccesso di velocità e consumo di alcool! Quante volte condanniamo questo stile del sabato sera, quante volte ci chiediamo impotenti come poter porre rimedio, per poi leggere in caratteri cubitali che proprio questo atteggiamento passa per "ganzo" perché assunto da un campione sportivo come Ibra. Forse è soltanto una mia impressione, ma sembra quasi che lui abbia vinto, nello sport e nella vita, grazie e questa condotta. Invece è esattamente il contrario: ce l'ha fatta nonostante quei comportamenti.

E purtroppo non finisce qui perché poi ci sono anche le polemiche su Guardiola, frutto e promotore allo stesso momento del sistema Barcellona che è il Modello per i valori che lo sport può esprimere perché garante di grandi prestazioni in una cornice esemplare di correttezza e fair play. Insomma, dove andiamo a finire se ci deve ispirare chi ridicolizza una persona come Guardiola che non è mai sopra le righe, né con le parole né coi comportamenti?

Credo che vada fatta chiarezza. Condannando i ragazzi spacconi e non prendendo le distanze dalle rivelazioni di Ibrahimovic forniamo un alibi a comportamenti scorretti e troppe volte pericolosi.
Se poi ridicolizziamo persino gli esempi positivi alimentiamo un mondo dai valori capovolti. E visti i tempi che corrono non è proprio ciò che ci vuole."

Articolo scritto per la Gazzetta dello Sport - Tutti i diritti sono riservati.

mercoledì 24 agosto 2011

Virtual grave


"Non bisognerebbe sopravvivere ai propri figli" si dice ed è profondamente vero. Così come vero è anche il fatto che non si debba sopravvivere al proprio io virtuale.
L'avvento di Facebook e in generale dei social network avanzati, in grado quindi di sostituire in parte o addirittura totalmente la socialità di una persona, ha creato uno strano fenomeno.
Paradossalmente, sospendere il proprio account, o chiuderlo del tutto, provoca reazioni di preoccupazione nella lista di amici (l'ho testato personalmente su Facebook), un pò come se la presenza sul social network e quindi in società sia sinonimico del godere di un buono stato di salute.
Ma questa cosa, per quanto assurda, viene ampiamente surclassata dal suo esatto contrario. Sono due i casi in cui invece un defunto continua a vivere sui social network in qualche modo.
Il primo caso, quello capitato a me, riguarda una persona che conoscevo, defunta giovane (ma prima del vero boom di Facebook) al quale è stato creato comunque un profilo per ricordarlo. Ci si ritrova così a ricevere la richiesta di amicizia da una persona morta nella realtà, ma viva telematicamente. A dir poco macabro.
Simile il caso generico: quello in cui una persona iscritta muore prematuramente, lasciando in eredità un profilo vivo e vegeto, che amici e parenti continuano ad alimentare con saluti e commemorazioni varie.
La nostra immagine continua a far capolino anche involontariamente nelle pagine degli altri utenti (ad esempio come amico in comune, o in tag di vecchie foto) anche se noi siamo in un'urna o sotto qualche metro di terra.
Ho un personalissimo senso di fastidio per tutto ciò. Mi sa di qualcosa fuori posto, che so di non poter sistemare. Di fatto, questa deriva è una delle cose più strambe di questo nuovo millennio.
Starò invecchiando io...

BriXx

lunedì 22 agosto 2011

Dichiarazione d'intenti

Si ricomincia qui ed ora. 
Dopo l'aggressione al mio precedente blog da parte dei buontemponi di Dada, mai domo né pago, riprendo a scribacchiare di tutto e di niente.
Ho perso post storici, come quello commemorativo su James Brown, oppure quelli sui concerti di Bob Stroger, Dave Matthews e i Ministri, ma non mi abbatto. Si ricomincia, come dicevo, qui ed ora.
Riuscendo magari a fare di meglio e di peggio del precedente caro estinto.
La Voce non muore: come l'energia si trasforma, e si riassembla in Inutilities.
A presto!

BriXx